martedì 15 marzo 2022

Regione Piemonte, il piano che taglia le liste d'attesa

Recupero (entro giugno) del 30% delle liste d’attesa sulle prestazioni ambulatoriali di primo accesso, presa in carico attiva di tutte le prescrizioni di primo accesso previste dal piano nazionale entro settembre e, a dicembre, recupero di tutte le visite, prestazioni e interventi rispetto al 2019 e al periodo pre-Covid. Sono gli obiettivi del Piano straordinario per il recupero delle liste d’attesa in Piemonte presentato dal presidente della Regione, Alberto Cirio (nella foto) e dall'assessore alla Sanità, Luigi Genesio Icardi, insieme al direttore dell’Assessorato regionale alla Sanità, Mario Minola e il consulente strategico Pietro Presti. Per mettere in atto il cronoprogramma verranno investiti 50 milioni di euro e si procederà con un monitoraggio settimanale degli obiettivi assegnati alle Aziende sanitarie locali, attraverso il metodo del “cruscotto” già sperimentato con efficacia per la campagna vaccinale contro il Covid, che vede ancora oggi il Piemonte in testa alle Regioni italiane per terze dosi già somministrate ai propri cittadini. “Quello delle liste d'attesa non è un tema che nasce oggi, si trascina da quasi dieci anni - sottolinea Alberto Cirio - ma è fondamentale risolverlo ed è ciò che ci impegniamo a fare, consapevoli anche delle conseguenze provocate da due anni di pandemia. Lo faremo con un approccio innovativo che si basa sull'esperienza della nostra campagna vaccinale, attraverso il potenziamento dell'offerta pubblica e la collaborazione con il privato. Il tutto all'insegna della trasparenza e della condivisione dell'obiettivo fondamentale che è quello di garantire cure tempestive ed efficaci ai piemontesi, valorizzando i professionisti che lavorano nella nostra sanità”. A sua volta, Luigi Genisio Icardi dice: “Sul recupero delle liste di attesa delle prestazioni di specialistica ambulatoriale, ricovero e screening oncologici, stiamo agendo con metodo e concretezza. Abbiamo un piano operativo messo a punto da una commissione di specialisti costituita ad hoc, con un impegno aggiuntivo di spesa di 50 milioni di euro. I dati dimostrano che nei soli quattro mesi del 2021 “liberi” dal Covid, la Sanità regionale ha saputo tornare ai livelli degli screening oncologici pre-pandemia, così come è riuscita a contenere la forbice degli interventi programmati a meno del 20% di quelli eseguiti nel 2019. Uno sforzo enorme, che dimostra la capacità di lavoro di tutto il personale sanitario regionale, trovatosi a passare dall’emergenza della pandemia a quella delle liste d’attesa, senza soluzione di continuità”. Rispetto ai ricoveri programmati, il 2021 ha visto già un recupero del 13% sul 2020. L’obiettivo della Regione per il 2022 è di tornare ai numeri del 2019 e superarli. Lo stesso per quanto riguarda le visite e le prestazioni ambulatoriali, già recuperate del 10% rispetto al 2020,e gli screening oncologici dove il recupero è stato del 45% sul 2020 tornando quasi al livello pre-covid. In particolare gli screening per il tumore al seno nel 2021, nonostante la pandemia, hanno perfino superato del 5,2% quelli eseguiti nel 2019, prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria. Il Piano per il recupero delle liste d’attesa messo in campo dalla Giunta regionale prevede numerose azioni, tra le quali l’efficientamento delle agende con una maggiore integrazione, anche informatica, tra quelle pubbliche e private, l’ottimizzazione del Cup e della presa in carico delle prescrizioni. In particolare, entro settembre, l’obiettivo è fare in modo che chiunque chiami per prenotare venga preso in carico dal sistema, anche in assenza di una disponibilità immediata. Sarà il sistema stesso a ricontattare il cittadino a breve, ad esempio attraverso un sms, inviando data e luogo dell’appuntamento ed evitando che si debba telefonare più volte per ottenere la prenotazione. Si inizierà da alcune delle prestazioni di primo accesso previste come prioritarie dal Piano nazionale di recupero delle liste d’attesa. “Di fatto è una vera e propria rivoluzione nella gestione della nostra sanità - concludono il presidente Cirio e l’assessore Icardi - Non può più accadere che il cittadino chiami il Sovracup regionale, non abbia un appuntamento e sia costretto a richiamare. Da settembre, l'impegno è di definire una data, utilizzando lo stesso metodo dei vaccini che si è rivelato efficiente. Per evitare che le disdette creino problemi al sistema, introdurremo il meccanismo della "panchina" già utilizzato nella campagna vaccinale, che consente di ottimizzare le risorse.Chi ha il diritto alla salute deve averlo anche in fretta”.

domenica 13 marzo 2022

Al Monzino di Milano si sperimenta il vaccino anti-infarto

Il Centro Cardiologico Monzino di Milano ha arruolato i primi tre pazienti che riceveranno Inclisiran, il farmaco che Eugene Brauwnwal, padre della cardiologia moderna, non ha esitato a definire il futuro “vaccino anti-infarto”. Lo studio coinvolgerà oltre 10mila pazienti nel mondo, con l’obiettivo di dimostrare che il nuovo farmaco di Novartis - che, come un vaccino, viene somministrato solo due volte l’anno - è in grado di ridurre il rischio eventi cardiovascolari gravi, come infarto e ictus, dimezzando i livelli di colesterolo “cattivo” LDL-C. “È noto come l’LDL-C giochi un ruolo chiave nello sviluppo e la progressione delle malattie cardiovascolari e aterosclerotiche ed è dimostrato che, abbassandone i livelli nel sangue, si ottiene una riduzione della loro incidenza e della mortalità. Un effetto che - spiega Piergiuseppe Agostoni (in foto)direttore del Dipartimento di Cardiologia Critica e Riabilitativa Monzino, oltre che professore ordinario di malattie cardiovascolari all’Università di Milano - è ancora più importante nei soggetti più a rischio, come chi ha già sperimentato nella sua storia un evento cardiovascolare (infarto e ictus). Sono proprio questi i pazienti su cui si focalizza questo studio. A oggi infatti, pur avendo a disposizione un’ampia gamma di farmaci anticolesterolo, tra cui le note statine, i target di LDL-C desiderabili per ridurre il rischio di recidive sono spesso difficili da ottenere”. Agostoni aggiunge: “Inclirisan è il primo farmaco di una nuova classe che, in studi clinici precedenti, ha già dimostrato di poter abbassare del 50% i livelli di LDL-C sia in pazienti con malattia cerebrovascolare (Cevd) che in pazienti con malattia polivascolare (Pvd). In questi soggetti, anche la terapia con statine, pur alla massima dose tollerata, non aveva ottenuto del tutto l’obiettivo. Inclirisan è stato definito come una delle innovazioni più importanti in ambito di prevenzione cardiovascolare nel nuovo millennio ed è capostipite di una nuova classe di farmaci anticolesterolo, che agiscono con un meccanismo di “silenziamento genico”. Si tratta di molecole che interferiscono in modo mirato su specifici target disattivandoli e dunque, per così dire, mettendoli a tacere”. “Inclirisan è ancora più interessante perché silenziando una sequenza di RNA messaggero (mRNA) a livello dell'epatocita (cellula del fegato), attraverso una serie di meccanismi a cascata, produce una riduzione molto importante dei valori di colesterolo. Da qui il parallelismo con i vaccini anti Sars-CoV-2 che, seppure con meccanismo molto diverso, sfruttano mRNA, una sorta di dizionario in grado di tradurre in pratica quanto scritto nel nostro materiale genetico” aggiunge Massimo Mapelli, membro dello staff dello studio al Monzino, insieme a Elisabetta Salvioni, Fabiana De Martino e Irene Mattavelli. Inclirisan è un farmaco di precisione: viene iniettato sottocute, come avviene ad esempio per l'eparina e va direttamente a un bersaglio specifico senza altri target in diversi punti dell'organismo. Per questo è ben tollerato e provoca effetti collaterali meno gravi rispetto alle statine ad alte dosi. La bassa tossicità è un aspetto fondamentale perché i pazienti candidabili allo studio sono quelli in "prevenzione secondaria", ovvero persone che in passato hanno già avuto un evento cardio-cerebro-vascolare. Per esempio, la paziente reclutata per prima al Monzino ha avuto un grave infarto due mesi fa e continua, nonostante una scrupolosa assunzione della terapia, ad avere valori di colesterolo troppo alti rispetto al valore soglia. Molti studi dimostrano come nel post-infarto fino al 40% delle prescrizioni farmacologiche vengano disattese per vari motivi nell’arco dei dodici mesi successivi all’evento, annullandone il beneficio. Un farmaco che si somministra solo due volte l’anno, magari durante una visita ambulatoriale già programmata, permette di superare anche questo problema. Al momento in Italia, oltre al Monzino, sono attivi o in corso di attivazione altri cinque centri, ma il numero è in continua evoluzione. I centri totali che vorrebbero aprire il reclutamento a livello mondiale sono 806, di cui 20 Italiani, con un obiettivo di reclutamento nel nostro Paese di 200 soggetti. Negli ultimi decenni è stato assodato il concetto che più il colesterolo è basso, maggiore è la riduzione del rischio di eventi. È importante notare che non è fondamentale il valore puntuale in un “momento x” della vita del paziente, ma i valori di colesterolo LDL "spalmati" su molti anni. Anche per questo noi al Monzino credono moltissimo in questo farmaco d’avanguardia, che va a modificare i meccanismi molecolari alla base della iperproduzione di colesterolo a bassa densità.

Gli Ordini: come prevenire la violenza nella sanità

“Se mi fai male chi ti curerà?” E' il titolo del documento, a cura del Gruppo di lavoro di diversi Ordini professionali piemontesi (medici e odontoiatri, assistenti sociali, farmacisti, ostetrici, infermieri, psicologi), presentato in occasione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari. Ecco il documento.
La violenza nei confronti degli operatori sanitari è un fenomeno di rilevanza mondiale per dimensioni e gravità, che potrebbe anche crescere ed essere alimentato dalla pressione data dall’emergenza pandemica e dal conseguente rallentamento delle attività sanitarie di routine. Alla parola "violenza" si tende ad associare una connotazione fisica, ma quella psicologica, verbale e comportamentale decisamente è più subdola e ugualmente devastante. Numerosi sono i fattori responsabili di atti di violenza diretti contro i professionisti delle cure, nelle strutture sanitarie come sul territorio. Sebbene qualunque operatore sanitario possa essere vittima di violenza, alcuni sono a rischio più alto in quanto per il loro lavoro si trovano a contatto diretto e spesso prolungato con il paziente, magari da soli, e devono gestire rapporti caratterizzati da una condizione di forte emotività e a volte di perdita di controllo sia da parte del paziente stesso che dei familiari, i quali si trovano spesso in uno stato di vulnerabilità, frustrazione, paura e rabbia, specialmente se sotto l’effetto di sostanze o di qualche disturbo di personalità. I fattori di rischio variano da struttura a struttura, dipendendo dalla tipologia dell’utenza, dai servizi erogati, dalla loro ubicazione e dimensione, dall’adeguatezza degli spazi e dalla durata dell’attesa della prestazione, dalle diverse culture organizzative e dalle dinamiche emotivorelazionali coinvolte nel processo di cura. Tra i contesti più esposti, anche al di là delle criticità legate alla pandemia da Covid-19, figurano i servizi d’emergenza-urgenza, quelli della salute mentale e delle dipendenze patologiche, le terapie intensive, ma anche la medicina e la pediatria del territorio e le strutture residenziali per anziani e disabili. Gli episodi di violenza contro operatori sanitari devono essere considerati eventi sentinella, in quanto segnali della presenza nell’ambiente di lavoro di situazioni di rischio o di vulnerabilità che richiedono l’adozione di opportune misure di prevenzione e protezione dei lavoratori e delle lavoratrici. La prevenzione degli episodi di violenza a danno degli operatori sanitari richiede che l’organizzazione identifichi i fattori di rischio per la sicurezza del personale e ponga in essere le strategie organizzative, strutturali e tecnologiche più opportune, diffonda una politica di tolleranza zero verso atti di violenza nei servizi sanitari, incoraggi il personale a segnalare prontamente gli episodi subiti e a suggerire le misure per ridurre o eliminare i rischi e faciliti il coordinamento con le Forze dell’ordine o altri soggetti che possano fornire un valido supporto per identificare le strategie atte a eliminare o ad attenuare la violenza nei servizi sanitari. Ma solo l’impegno comune di tutti (direzioni aziendali, professionisti e loro rappresentanti, organizzazioni sindacali, rappresentanti dei cittadini, organi di informazione) può migliorare l’approccio al problema e assicurare un ambiente di lavoro sicuro. È importante che si preveda, accanto a pene adeguate per le aggressioni, anche una formazione degli operatori, obbligatoria e mirata, sulle misure di auto-protezione, sugli aspetti della comunicazione (con particolare riguardo alle tecniche di de-escalation) e della relazione terapeutica nei confronti delle persone assistite. Un’azione preventiva molto opportuna da parte del “datore di lavoro” sarebbe quella di predisporre del materiale informativo (cartelli, opuscoli) al fine di mitigare la tensione con l’utenza, a cui si potrebbe spiegare che molti dei disagi ai quali vanno incontro non sono imputabili agli operatori ma derivano da criticità organizzative sulle quali per lo più gli operatori non hanno il potere di decidere, come lunghe liste di attesa, visite brevi, luoghi affollati e poco accoglienti, carenza di informazioni. Fondamentale è anche una più adeguata cultura del rischio, che contrasti il pregiudizio e la rassegnazione diffusi tra gli operatori – soprattutto in contesti come l’emergenza o la salute mentale – secondo cui le aggressioni farebbero parte del loro lavoro, atteggiamento che alimenta il fenomeno delle omesse segnalazioni degli episodi di violenza, attivando un meccanismo di assuefazione tale per cui chi entra in servizio sa già che riceverà un’aggressione, verbale, psicologica o fisica che sia. Al di là delle necessarie misure preventive di natura sociale, organizzativa e legate all’ambiente fisico di lavoro che occorre adottare all’interno di un contesto aziendale, anche in ottemperanza alle leggi e alle normative vigenti, ogni programma di prevenzione dovrebbe assicurare un opportuno trattamento e sostegno agli operatori vittime di violenza verbale, fisica o emotivorelazionale e a quelli che possono essere rimasti traumatizzati per aver assistito a un episodio di violenza. Il personale coinvolto dovrebbe poter ricevere un primo trattamento, che includa una valutazione e un supporto di tipo psicologico, a prescindere dalla severità del caso. Le vittime della violenza sul luogo di lavoro possono presentare, oltre a lesioni fisiche, una varietà di situazioni cliniche, tra cui traumi psicologici di breve o lunga durata, timore di rientrare al lavoro, cambiamento nei rapporti con colleghi e familiari, fino al “disimpegno morale” e ai possibili “comportamenti controproduttivi”: distacco, disimpegno, anche azioni che possono produrre errori clinici, danni con ricadute di immagine ed economiche per gli operatori e per le Aziende sanitarie, che altro non sono se non forme disfuzionali di autodifesa dal sentimento di non essere riconosciuti e protetti da parte dell’organizzazione. Pertanto, è necessario assicurare un trattamento appropriato per aiutare le vittime a superare il trauma subito e prevenire lo sviluppo di uno stress post-traumatico. La tutela degli operatori sanitari dagli atti di violenza e dai loro esiti è un modo per difendere non solo i diritti dei lavoratori, ma anche quelli degli utenti, perché nelle “relazioni di cura” si dà quello che si ha: se sono ansioso dispenso ansia, se sono preoccupato diffondo preoccupazione, se provo rabbia parlo in modo rabbioso e così via, con una progressione in stile "domino" dove l’ultimo elemento a cadere è l’alleanza di lavoro, senza la quale la cura non funziona più.

venerdì 11 marzo 2022

Personale sanitario, ogni anno 2.500 aggressioni

In Italia, nel quinquennio 2016-2020, sono stati più di 12mila i casi di infortunio in occasione di lavoro accertati positivamente dall’Inail e codificati come violenze, aggressioni, minacce e similari perpetrate nei confronti del personale sanitario, con una media di circa 2.500 l’anno. A rilevarlo è la Consulenza statistico attuariale dell’Istituto in occasione della prima Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari, che dal 2022 viene celebrata annualmente il 12 marzo. Il 46% di tali infortuni è concentrato nel settore “assistenza sanitaria”, che include ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari; il 28% è stato riscontrato nei “servizi di assistenza sociale residenziale” (case di riposo, strutture di assistenza infermieristica, centri di accoglienza), mentre il restante 26% ricade nel comparto “assistenza sociale non residenziale”. Riguardo al genere, gli infortunati sono per quasi tre quarti donne, con il 64% accertato in ospedali e case di cura e l’80% nelle strutture di assistenza sociale, residenziale e non. La professionalità più colpita è quella dei “tecnici della salute”, in cui è concentrato più di un terzo del totale dei casi. Si tratta prevalentemente di infermieri, ma anche di educatori professionali, normalmente impegnati in servizi educativi e riabilitativi con minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani all'interno di strutture sanitarie o socio-educative. A seguire, con il 25% dei casi, sono gli operatori socio-sanitari delle “professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali” e con il 15% le “professioni qualificate nei servizi personali ed assimilati”, soprattutto operatori socio-assistenziali e assistenti-accompagnatori per persone con disabilità. Più distaccati, con il 5% dei casi di aggressione in sanità, la categoria dei “medici”, che non include nell’obbligo assicurativo Inail i sanitari generici di base e i liberi professionisti. Istituita dalla legge del 14 agosto 2020, la Giornata è stata indetta nel gennaio scorso da un decreto del ministero della Salute di concerto con i ministeri dell’Istruzione e dell’Università e Ricerca. Salutata con favore dalle rappresentanze professionali e dalle parti sociali, intende essere un’occasione per rimarcare l’importanza della diffusione di una sana cultura di educazione e rispetto nonché di condanna decisa a ogni forma di violenza verso gli operatori di questo comparto. Alle amministrazioni pubbliche, anche in coordinamento con enti e organismi interessati, viene affidata la promozione di idonee iniziative di comunicazione e sensibilizzazione in tema.

mercoledì 9 marzo 2022

A Unito laboratorio del benessere e della felicità

Il 16 marzo prenderà il via, all'interno del corso di Laurea magistrale in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Torino, il laboratorio “Contesti e strumenti per il benessere e la felicità”, in collaborazione con il Movimento Mezzopieno. L’obiettivo è approfondire la conoscenza dei costrutti di benessere e di felicità, illustrare gli strumenti che possono promuoverli in diversi ambiti e allenare un pensiero critico riguardo le forme che la felicità e il benessere può assumere in diversi ambiti di vita. Il laboratorio offrirà un approccio esperienziale, analizzando vari contesti come l’educazione, la comunicazione, la comunità, le organizzazioni. Marta Casonato (nella foto), psicologa e responsabile dell'ufficio studi di Mezzopieno e Semi Onlus e titolare dell’insegnamento del Laboratorio “Contesti e strumenti per il benessere e la felicità”, spiega: “Promuoviamo un approccio costruttivo alla vita, ispirato al corso più frequentato di sempre all’Università di Yale - “Psychology of Good Life”- Si punta a far fiorire il benessere, è un mettersi in gioco e riflettere. La felicità è legata al momento, al sentirsi bene, ma è anche investire in ricerca di significato e in relazioni positive”. Il laboratorio all’Università di Torino nasce su iniziativa di Semi Onlus, tramite il Movimento Mezzopieno, la rete italiana della positività, che da tempo porta avanti attività tra la gente e con diversi enti della società civile, parallelamente a un percorso di ricerca e di confronto sul tema della promozione della felicità e del benessere, con un approccio interdisciplinare che coinvolge la psicologia, l’informazione, la pedagogia ma anche l’economia e la cooperazione internazionale. Dal 2021 è stata formalizzata una specifica Convenzione con il Dipartimento di Psicologia. L'attività di ricerca e di didattica sono gli strumenti attraverso cui il movimento Mezzopieno approfondisce la sua capacità di interpretare e analizzare la società e le sue evoluzioni. L'obiettivo dell'attività scientifica della comunità Mezzopieno è quello di sviluppare nuovi strumenti di conoscenza e supporti didattici a uso dell'attività del movimento, dei suoi membri e per la collettività. Le collaborazioni di Mezzopieno con le Università risalgono alla creazione della prima cattedra dedicata al filosofo Raimon Panikkar, padre del dialogo interculturale e interreligioso, sull’economia etica nell'ateneo torinese. “Parlare di felicità e di benessere è importantissimo - aggiunge Marta Casonato - Dobbiamo insegnare ai futuri professionisti della salute mentale che è indispensabile investire sul benessere e sulla felicità delle persone e non soltanto sulla cura del malessere. L’obiettivo del laboratorio è quello di trasmettere a studenti e studentesse l’importanza di focalizzarsi non solo sul risultato delle proprie azioni, del proprio lavoro, ma anche sullo stare meglio e far star meglio gli altri. Un insegnamento per rimettere al centro i bisogni più autentici, sia in ambito professionale che nella vita quotidiana”, Il benessere non è la mera assenza della malattia o del disagio e la felicità non è circoscritta al picco di endorfine, al successo momentaneo o alla gioia che si prova in seguito a un particolare evento. Entrambi i costrutti, pur differenziandosi, fanno riferimento a un più ampio equilibrio, un’armonia tra il proprio mondo interno e quello esterno. Anche i contesti in cui si vive sono importanti, dove per contesto intendiamo le dimensioni relazionali, gli aspetti sociali che sono più vicini a noi, dall'ambiente professionale alle circostanze più generali in cui tutti viviamo. Come esercitarsi con la felicità? Sono molte le pratiche semplici che si possono inserire nella quotidianità la cui efficacia è stata dimostrata con studi scientifici. Una scienza applicabile, quella della felicità, alla portata di tutti.

martedì 8 marzo 2022

In forte riduzione il consumo di antibiotici

Nel 2020 il consumo complessivo di antibiotici in Italia, pubblico e privato, è stato in forte riduzione rispetto al 2019 (-18,2%). Allora gli antibiotici hanno rappresentato, con 692,1 milioni di euro, il 3% della spesa e l’1,2% dei consumi totali a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn), che ha erogato quasi l’80% delle dosi totali, con una riduzione del 21,7% rispetto al 2019. Questo dato comprende sia gli antibiotici erogati in regime di assistenza convenzionata (dalle farmacie pubbliche e private) sia quelli acquistati dalle strutture sanitarie pubbliche. Complessivamente, i consumi italiani di antibiotici si mantengono superiori a quelli di molti Paesi europei. La spesa pro capite Ssn (11,6 euro) è in diminuzione rispetto all’anno precedente. Gli acquisti privati di antibiotici rimborsabili dal Ssn (classe A) sono stati pari a 3,9 dosi ogni 1.000 abitanti, che corrispondono al 24% del consumo territoriale totale di antibiotici e a una spesa pro capite di 2,05 euro. Circa il 90% del consumo di antibiotici a carico del Ssn viene erogato in regime di assistenza convenzionata, confermando che gran parte dell’utilizzo avviene a seguito della prescrizione del medico di Medicina Generale o del pediatra di Libera Scelta.
Le penicilline in associazione agli inibitori delle beta-lattamasi si confermano la classe a maggior consumo, seguita dai macrolidi e dai fluorochinoloni. Rispetto al 2016 si osserva complessivamente una riduzione del 27,4% dei consumi degli antibiotici sistemici e le categorie che hanno maggiormente contribuito a tale flessione sono state le associazioni di penicilline (compresi inibitori delle betalattamasi), i macrolidi e i fluorochinoloni. Va comunque ricordato che i consumi di fluorochinoloni erano in netto calo già nel 2019, a seguito delle restrizioni all’uso di questi antibiotici stabilite dall’Ema alla fine del 2018 e successivamente dall’Aifa. Nonostante le riduzioni registrate rispetto al 2019, si continua a osservare un’ampia variabilità regionale con il minore consumo nelle regioni del Nord rispetto a quelle del Centro e del Sud. Nonostante i diversi livelli di consumo, si rileva una riduzione superiore al 20% nel 2020 rispetto all’anno precedente, piuttosto omogenea nelle varie aree geografiche: Nord -25%, Centro -25,4%, Sud -21,3%. In particolare, le maggiori contrazioni dei consumi hanno riguardato l'Alto Adige e l’Emilia-Romagna (rispettivamente -28,3% e -27,8%), mentre le maggiori riduzioni di spesa sono state osservate in Emilia-Romagna, Toscana e nelle Marche (-26,5%, -26,4% e -26,4% rispettivamente). Nel corso dell’anno circa tre italiani su 10 hanno ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici e in media ogni utilizzatore è stato in trattamento per circa 14 giorni nel corso dell’anno, con una prevalenza d’uso che aumenta all’avanzare dell’età, superando il 50% nella popolazione ultra-ottantacinquenne. Si conferma un maggior consumo di antibiotici nelle fasce estreme, con un livello più elevato nei primi quattro anni di vita (prevalenza d’uso 31,3% nei maschi e 29,4% nelle femmine) e nella popolazione con età uguale o superiore agli 85 anni (prevalenza d’uso 55,6% negli uomini e 50,4% nelle donne). Si riscontra anche un più frequente utilizzo di antibiotici per le donne nelle fasce d’età intermedie e per gli uomini in quelle estreme. Nel 2020, il 26,2% (nel 2019 era il 40,9%) della popolazione italiana fino ai 13 anni di età ha ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici sistemici, con una media di due confezioni per ogni bambino trattato, dati in marcata diminuzione rispetto al 2019. Confrontando il 2020 con il 2019, si registrano in tutte le aree geografiche riduzioni sia in termini di numero di confezioni che di prevalenza d’uso di antibiotici. Ciò è attribuibile alla misure implementate per contenere la trasmissione del Covid-19, quali la chiusura prolungata delle scuole e dei luoghi di ritrovo, che sono risultate efficaci anche nel ridurre la frequenza delle comuni infezioni batteriche e di quelle virali, queste ultime spesso trattate impropriamente con antibiotici, soprattutto nel periodo invernale. Il maggior livello di esposizione si rileva nella fascia compresa tra 2 e 5 anni, in cui circa un bambino su tre riceve almeno una prescrizione di antibiotici senza differenze di genere. È importante pianificare azioni per il miglioramento dell’appropriatezza prescrittiva visto il ruolo importante del consumo di antibiotici sullo sviluppo di antibiotico-resistenze. L’indicatore che confronta il ricorso alle molecole ad ampio spettro rispetto a quello delle molecole a spettro ristretto ha registrato un peggioramento dal 2019 al 2020 passando da 4 a 4,5. Questo incremento, derivante da una maggior contrazione dell’uso delle molecole a spettro ristretto (come amoxicillina semplice) rispetto a quelle ad ampio spettro, può essere l’effetto di una variazione della tipologia/gravità delle infezioni gestite in ambulatorio e, in parte, di un eccessivo uso di molecole di seconda scelta. Nel 2020 quasi il 45% della popolazione ultrasessantacinquenne ha ricevuto almeno una prescrizione di antibiotici sistemici; ma sono state osservate importanti riduzioni rispetto al 2019 sia in termini di dosi (-17,9%) sia in termini di prevalenza d’uso (-15,2%). I livelli di consumo degli antibiotici sistemici aumentano progressivamente all’avanzare dell’età; si osserva inoltre una differenza di genere dei consumi che, in tutte le fasce di età, risultano più elevati negli uomini rispetto alle donne. Le associazioni di penicilline, inclusi gli inibitori delle betalattamasi, sono la categoria terapeutica maggiormente utilizzata nella popolazione ultrasessantacinquenne.

Tossine, dove si nascondono questi pericoli insidiosi

di Roberto Rey*
Si parla di intossicazione quando si assumono droghe o cibi velenosi; in realtà il corpo umano può intossicarsi frequentemente in modo modesto ma comunque problematico. In questo caso alcune funzioni del nostro organismo vengono compromesse dalla presenza di tossine esogene dovute all'ambiente o di tossine endogene prodotte dal corpo stesso. Difendersi dalle tossine é un compito impegnativo in quanto il rischio é: 1) di respirarle se sono presenti nell'ambiente, 2) di ingerirle se presenti nel cibo e nelle bevande o nei farmaci, 3) di assorbirle attraverso la pelle. Per contrastarle utilizziamo gli organi depurativi: il fegato ed i reni.  Tutto ciò che viene ingerito o viene respirato o viene assorbito, arriva nel sangue e successivamente nel fegato che interviene agendo come un vero e proprio filtro. Il fegato tramite un sistema di disintossicazione che utilizza decine di enzimi, neutralizza le sostanze tossiche e le rende solubili ed infine le espelle attraverso la bile. Il fegato svolge anche altri compiti: elabora le proteine, immagazzina gli zuccheri e provvede alla digestione dei grassi. Al termine del processo digestivo l'intestino scompone gli alimenti per permettere che le sostanze utili vengano assimilate e che quelle da scartare vengano eliminate. Se l'intestino non funziona bene le scorie ristagnano provocando stitichezza e irritazione delle pareti intestinali e si può arrivare al riassorbimento delle sostanze tossiche. É utile quindi bere molta acqua, assumere cibi ricchi di fibre e introdurre cereali integrali. Può inoltre essere utile assumere tisane lassative, massaggiare l'addome e fare esercizi respiratori contraendo gli addominali nell'espirazione. I reni, grazie ad un processo di filtrazione, estraggono le tossine dal sangue e le convogliano alla vescica in modo che vengano eliminate con le urine. L'urea é uno dei principali prodotti di scarto e deriva dal metabolismo delle proteine. Le varie forme di depurazione periodica hanno l'obiettivo di prevenire la sindrome metabolica che può portare al diabete all'ictus cerebrale e alle patologie cardio-vascolari. Gli alimenti ci intossicano se mangiamo troppo e male. Mangiare troppo riduce poco per volta l'energia. I salumi, le carni rosse, i formaggi possono essere fonti di sostanze tossiche, in quanto il fegato trasforma le proteine non utilizzate in urea che viene eliminata attraverso i reni. Se le proteine sono troppe, il rene soffre e non riesce a smaltirle completamente e pertanto aumenta l'azotemia e l'uricemia. Il corpo umano se riconosce dentro di sè una sostanza dannosa per la salute attiva adeguati procedimenti per eliminarla. Attraverso l'intestino, il fegato, i reni, i polmoni e l'epidermide possiamo mantenere "pulito" il nostro corpo. L'obiettivo delle diete, degli integratori e di altre tecniche disintossicanti é quello di permettere una buona depurazione e di eliminare le sostanze dannose che altrimenti ristagnerebbero nel corpo. In conclusione, per ridurre le intossicazioni bisogna diminuire il consumo di cibi che rilasciano residui acidi ed aumentare il consumo di quelli che rilasciano residui alcalìni-basici. Diminuire quindi il consumo di carni rosse, di zuccheri, di cereali raffinati, di cibi fritti e di latticini e aumentare il consumo di verdura, frutta, legumi, mandorle e alimenti proteici derivati della soia. É importante variare il più possibile l'alimentazione quotidiana perchè in tal modo si evita di abusare di sostanze che possono affaticare gli organi di depurazione e si evita la comparsa di intolleranze che favoriscono la formazione di tossine. Le intossicazioni sono le conseguenze dell'assunzione di sostanze e di cibi "velenosi" che possono mettere a rischio la salute. Il corpo umano può intossicarsi in modo più o meno pesante a causa di tossine provenienti dall'esterno o dall' interno del corpo stesso. Senza reagire in modo esagerato dobbiamo occuparci dei problemi del nostro corpo adottando con la dovuta attenzione quei comportamenti che aiutano a recuperare buone condizioni psicofisiche.Talvolta ci intossichiamo a causa di comportamenti scorretti come l'assunzione di proteine contenute in salumi, formaggi e carni rosse; il corpo non è in grado di accumulare proteine quindi se non le utilizza le trasforma in urea. Quando le tossine sono troppe i reni soffrono e non riescono a smaltirle per cui nel sangue aumentano sia le sostanze azotate che gli acidi urici. In conclusione è necessario: 1) Prestare molta attenzione nella scelta degli alimenti. 2) Ristabilire l'equilibrio acido-basico. 3) Perdere peso rapidamente. 4) Diminuire il consumo di cibi che rilasciano residui acidi e aumentare il consumo di cibi che rilasciano residui basici. 5) Ridurre il consumo di proteine animali (particolarmente carni rosse), di zuccheri, di cereali raffinati, di fritti e di latticini. 6) Incrementare il consumo di verdure, di frutta, di germogli, di legumi, di mandorle, e di alimenti proteici derivati dalla soia. 7) Evitare l'abuso di farmaci. PRIMA PARTE

Ecco i 24 alimenti che ci disintossicano naturalmente

di Roberto Rey*
* Gli alimenti disintossicanti da preferire sono: frutta e verdura al primo posto, seguite da cereali, legumi e pesci. Le etichette stampate sulle confezioni riportano gli ingredienti del prodotto e la dichiarazione nutrizionale e pertanto permettono di fare scelte ponderate e corrette; preferire i cibi con pochi ingredienti in quanto in genere sono i più semplici e naturali. Ed ecco l'elenco di 24 alimenti disintossicanti: 1) Le alghe. Sono ortaggi marini. Molte le varietà commestibili, tutte ricche di sali minerali. Ognuna presenta aspetti, caratteristiche nutrizionali e modalità di utilizzo differenti. 2) Carciofi. Molto indicati, contengono sostanze che stimolano l'attività del fegato. 3) Carote. Verdura molto ricca di betacarotene, sostanza che viene trasformata in Vitamina A. 4) Cavolo. Raggruppa molti ortaggi del genere brassicacee che contengono sostanze benefiche molto utili in diete disintossicanti. 5) Cicoria. Ha molte proprietà benefiche. E' una verdura amara molto utile nelle diete disintossicanti (la catalogna, la cicoria riccia e la scarola, sono le varietà coltivate). 6) Ciliegia. Ha innumerevoli proprietà benefiche, soprattutto se mangiata al mattino a digiuno o un'ora prima di andare a tavola. 7) Cipolla e aglio. Veri farmaci da cucina non solo per la vitamina C e il potassio ma per vari effetti protettivi e depurativi. 8) Farro. Si distingue dal frumento perchè è più ricco di proteine e di sali minerali. Contiene glutine e quindi va escluso per i celiaci. 9) Germogli. Ideali per il consumo a crudo. Sono depurativi. In commercio si trovano facilmente i germogli di soia. 10) Insalate. Essenziali in ogni menù depurativo apportano acqua e fibre. 11) Lenticchie. Legumi ricchi di proteine utili per limitare la presenza di proteine animali. 12) Limone. Ricco di proprietà depurative. 13) Mandorle. Abbassano il colesterolo totale e l'Ldl colesterolo. 14) Mela. Meglio se biologica e se mangiata con la buccia. 15) Miglio. I chicchi decorticati hanno un buon tenore di proteine e non hanno Glutine. 16) Orzo. Cereale nutriente, ricco di sali minerali. 17) Pesce. Ottimo per il contenuto di omega 3 che riduce il colesterolo nel sangue. 18) Piselli. Legumi ricchi di proteine, vitamine, sali minerali 19) Ribes. Poche calorie. Depurativo del sangue. Contiene antocianine che hanno potere antiossidante e protettivo nei confronti di malattie coronariche e tumori, hanno inoltre azione antinfiammatoria e antinfettiva. 20) Riso. Quello integrale è un'ottima fonte di oligoelementi soprattutto di selenio. 21) Semi di girasole, di zucca e di chia. In una dieta equilibrata non dovrebbero mancare. Quelli di girasole sono un vero integratore naturale di vitamine e sali minerali. 22) Tofu. Derivato della soia, che è un vegetale ottimo dal punto di vista nutrizionale, viene utilizzato come secondo piatto per il suo alto contenuto in proteine. É alternativo alla carne, consigliato a chi desidera non fare uso di prodotti animali e desidera ridurre l'apporto di colesterolo. 23) Uva. Frutto disintossicante perchè conserva anche quando è maturo un notevole contenuto di acidi organici che svolgono una benefica azione alcalinizzante sull'organismo. 24) Yogurt. A differenza del latte e dei suoi derivati, che sono sconsigliati in una dieta disintossicante, ha il merito di avere fermenti lattici che svolgono importanti azioni depurative e protettive. I comportamenti che devono essere evitati in quanto possono favorire/aggravare le intossicazioni sono: mangiare molto più del necessario (diventa evidente quando con l'attività fisica non si riesce a smaltire quanto ingerito). L'eccessivo accumulo di proteine prodotto da salumi, formaggi e carni rosse che non riesce ad essere smaltito e tali sostanze rimangono nel circolo sanguigno aumentandone l'azotemia e gli acidi urici. Le regole del Benessere. Introdurre gli alimenti nella dieta con la consapevolezza delle loro proprietà in modo da sfruttare al meglio le sostanze nutritive che contengono. Prima considerazione: Ridurre al minimo le calorie vuote. Tre categorie di cibi apportano molte calorie e poche sostanze nutritive vitali: lo zucchero, i cereali raffinati, i grassi. Lo zucchero favorisce carie, obesità e arteriosclerosi e non ha valore nutritivo. Si trova in quantità elevate anche in cibi non sospetti come nelle bevande gassate e il ketchup (una lattina di bibita gassata contiene l'equivalente di 7 cucchiaini di zucchero); quello integrale è meno dannoso di quello raffinato perchè contiene sali minerali ma contiene un eccesso di calorie. I cereali raffinati come farina e riso forniscono amidi con scarse quantità di fibre, proteine, sali minerali e vitamine. Molto meglio quindi sostituire le farine raffinate con quelle di tipo 1 e preferire il riso e gli altri cereali, in forma integrale e in chicco. I grassi sono essenziali per il nostro organismo. In particolare l'olio extra vergine di oliva è il condimento più adatto in quanto contiene in rapporto ottimale acido linoleico. Per mangiare sano è importante conoscere gli alimenti e privilegiare quelli antiossidanti e disintossicanti. Gli alimenti da preferire sono quelli più naturali che sono semplici, coltivati con pochi fertilizzanti chimici e con poche aggiunte di conservanti e additivi. Al primo posto dobbiamo mettere la frutta e la verdura, seguiti dai cereali, dai legumi, dal pesce e da alcuni latticini arricchiti con fermenti e altre sostanze benefiche per l'organismo. Non bisogna dimenticare che lo stato di benessere raggiunto si può mantenere con una periodica depurazione. Per disintossicare il nostro corpo ci vogliono mediamente 3-4 settimane e non è corretto reagire aggredendolo. La corretta scelta degli alimenti aiuta il nostro organismo a depurarsi. É importante adottare comportamenti molto corretti e salutari che possono giovare al corpo e allo spirito in modo da ritornare alla normalità seza particolari forzature. *Medico, presidente dell'associazione Più Vita in Salute SECONDA PARTE

lunedì 7 marzo 2022

Quasi 4,5 milioni con malattia renale cronica

La malattia renale cronica colpisce circa il 10% della popolazione adulta nel mondo e in Italia i pazienti che ne soffrono in forma media o grave sono quasi 4,5 milioni. Numeri in costante aumento a causa dell'invecchiamento della popolazione e che potrebbero crescere nei prossimi mesi come effetto 'rimbalzo' dopo lo stop subito dalle visite specialistiche durante la pandemia. Eppure, un italiano su due ammette di non sapere chi sia lo specialista dei reni (46%). A mettere in luce il gap conoscitivo su questa condizione sono i risultati della survey Bridge the knowledge gap, promossa dalla Società Italiana di Nefrologia (Sin) presentati in una conferenza stampa in vista della giornata mondiale del Rene che si celebra il 10 marzo. Dalla ricerca su un campione di oltre 1.000 italiani tra 18 e 70 anni emerge che solo il 13,4% pensa di sapere cos'è la malattia renale cronica, mentre poco meno della metà della popolazione (48.8%) ammette di averla solo sentita nominare. Ben 7 su 10 non hanno mai fatto visite specialistiche per il controllo dei reni. Pochissimi sanno che questi organi controllano ormoni specifici e che influenzano anche la pressione, così come il fatto che il loro funzionamento può risentire dell'utilizzo di alcuni farmaci. Solo il 38% sa che a curarli è il nefrologo, mentre moltissimi confondono questa figura con l'urologo. Veri e propri vuoti di conoscenze riguardano i giovani mentre non ci sono diversità tra regioni del nord e del sud. Questi dati, spiega Piergiorgio Messa, presidente Sin e professore ordinario di Nefrologia all'Università degli Studi di Milano, sono “in linea con quello del ritardo diagnostico che si registra per la malattia renale cronica, per cui è evidente che ci si preoccupa della salute dei reni non in un'ottica di prevenzione o di intervento precoce, ma quando ormai la malattia è in uno stadio avanzato tale da richiedere la dialisi o il trapianto. Le malattie renali danno raramente segnali riconoscibili e per questo vengono spesso scoperte per caso, in fase ormai avanzata, in occasione di esami svolti per altri motivi”.

Compagnia San Paolo accelera l'innovazione nella sanità

E' stato presentato il completamento del reparto di Nefrologia e Gastroenterologia all’Ospedale torinese Regina Margherita, sostenuto nell’ambito dell’iniziativa sperimentale “Hospeedal – Acceleriamo l’innovazione della sanità”. Un’iniziativa nata per favorire la collaborazione tra pubblico e privato nella realizzazione di progettualità complesse orientate alla riqualificazione di reparti ospedalieri, con particolare attenzione alla transizione digitale del sistema sanitario, al fine di sostenere l’innovazione e il miglioramento tecnologico volto alla qualità del servizio e al benessere del paziente. Per la prima edizione dell’iniziativa sperimentale, la Fondazione Compagnia di San Paolo ha selezionato gli interventi da supportare affinchè, partendo da un bisogno espresso dal sistema sanitario pubblico, fossero in grado di concorrere al raggiungimento dei seguenti obiettivi: incremento della capacità di trattare i pazienti e conseguente riduzione delle liste di attesa; creazione o rafforzamento di hub clinici e di competenze in grado di aumentare la capacità di attrazione della struttura e agire sul saldo tra mobilità attiva e passiva; aumento del livello di digitalizzazione e di capacità di trattamento dati (anche in riferimento a iniziative di telemedicina) dei reparti/servizi/processi. Hospeedal ha riguardato interventi su reparti ospedalieri pubblici operanti nell’ambito della salute delle donne (sia ostetrica, sia ginecologica) e dei bambini (nella fascia 0-18 anni) realizzati da fondazioni, associazioni e altri enti del Terzo settore che svolgono funzioni di supporto agli ospedali di aziende sanitarie della Regione Piemonte, sia attraverso lo svolgimento di una significativa azione di sensibilizzazione e responsabilizzazione della cittadinanza, sia tramite un’ampia attività di fundraising. “La Fondazione Compagnia di San Paolo - ha dichiarato Alberto Anfossi, il Segretario generale –sostiene azioni che permettano al sistema sanitario di introdurre nuovi modelli organizzativi, migliorando l’efficienza delle risorse e offrendo un’assistenza di alto livello, anche grazie all’innovazione tecnologica. Per tale ragione abbiamo selezionato, attraverso l’iniziativa sperimentale Hospeedal, il progetto promosso da Forma-Fondazione Ospedale Infantile Regina Margherita Onlus: con la creazione di un reparto congiunto di Nefrologia e Gastroenterologia - struttura di eccellenza in Piemonte dedicata alla cura dei bambini che necessitano di trapianti di rene, fegato e combinati rene-fegato- le competenze sono state unificate, ottimizzando le risorse sia umane sia tecnologiche, a beneficio di tutti gli operatori, ma soprattutto dei piccoli pazienti e delle loro famiglie”.

domenica 6 marzo 2022

I gravi danni della malattia cronica delle gengive

Dal diabete alla pressione alta, dall’artrite ai problemi cardiovascolari fino addirittura all’Alzheimer, al parto prematuro e al Covid in forma grave, la malattia cronica delle gengive, la parodontite, è collegata al rischio di sviluppare diverse malattie: “ci sono solide evidenze scientifiche che legano la parodontite a qualcosa come 50 diverse patologie” ha detto Francesco D’Aiuto, della University College London e della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia (SIdP). Lo scrive l'Ansa, aggiungendo che molte malattie hanno una componente infiammatoria e la parodontite è caratterizzata da un processo infiammatorio gengivale cronico. diretta conseguenza di un infezione batterica. “Una associazione tra problemi cardiovascolari e diabete con la parodontite - ha spiegato D’Aiuto sulla rivista Nature - è ormai documentata particolarmente bene”. Lo stesso specialista ha precisato che sulla base di dati clinici raccolti finora si stima che la malattia delle gengive aumenti il rischio di malattia cardiaca futura del 10-15% (un aumento equivalente a quello associato ad altri fattori di rischio come lo stress, oppure il fumo passivo). L'Ansa riferisce inoltre che un lavoro pubblicato di recente sul Journal of Periodontology da Thomas Van Dyke del Forsyth Institute, in Massachusetts (Usa) evidenzia che soffrire di parodontite potrebbe addirittura raddoppiare il rischio di avere un infarto o un ictus o un altro evento cardiovascolare. E anche per il diabete diversi studi documentano ormai in modo esaustivo il nesso con la parodontite. Il collegamento è biunivoco, nel senso che una malattia favorisce l’altra. Le più recenti evidenze scientifiche, inoltre, negli ultimi anni hanno collegato la parodontite a condizioni quali l’Alzheimer e l’artrite reumatoide. “Alcuni studi stanno via via confermando un possibile legame di causa ed effetto tra parodontite e malattie e questo fa sperare in un futuro dove il controllo della salute parodontale diventi parte integrante delle cure mediche”, ha concluso D’Aiuto, sottolinenado che però molto resta da scoprire sui meccanismi in atto.

sabato 5 marzo 2022

I consigli dell'Oms per non rischiare di perdere l'udito

Oltre un miliardo di persone nel mondo di età compresa tra i 12 e i 35 anni rischia di perdere l'udito a causa dell'esposizione prolungata a musica e ad altri suoni ad alto volume. E' l'allarme lanciato dall'Oms (Organizzazione mondiale della Sanità), in occasione della Giornata mondiale dell'udito. L'Oms ha denunciato che i problemi di udito possono tradursi in conseguenze gravi sulla salute fisica e mentale, sull'istruzione e sulle prospettive occupazionali. Ma una larga parte dei casi di perdita dell'udito potrebbe essere evitata mettendo in atto alcune misure di prevenzione. Per questo, l'Oms ha elaborato nuove raccomandazioni, rivolte sia ai singoli che ai gestori di attività in cui viene riprodotta musica amplificata. “In situazioni come discoteche, bar, concerti ed eventi sportivi il rischio dipende anche dal fatto che non vengono offerte opzioni per un ascolto sicuro”, ha spiegato Bente Mikkelsen, direttore del Dipartimento Oms per le malattie non trasmissibili. Le nuove raccomandazioni mirano a preservare l'udito garantendo comunque un suono di alta qualità e un'esperienza di ascolto piacevole. L'Oms suggerisce ai gestori di locali pubblici un livello sonoro medio massimo di 100 decibel; il monitoraggio in tempo reale e la registrazione dei livelli sonori mediante apparecchiature calibrate da parte di personale designato; l'ottimizzazione dell'acustica del locale e dei sistemi audio; la messa a disposizione al pubblico di dispositivi di protezione personale dell'udito; la possibilità di accesso a zone tranquille per far riposare le orecchie; la formazione del personale e l'informazione. Alle singole persone, poi, l'Oms consiglia di mantenere basso il volume dei dispositivi audio personali; di utilizzare auricolari/cuffie ben adattati e, se possibile, in grado di eliminare il rumore; di indossare i tappi per le orecchie nei luoghi rumorosi; di sottoporsi a regolari controlli dell'udito.

venerdì 4 marzo 2022

Perché volano i consumi di legumi

Volano i consumi di legumi che, nell’ultimo decennio, sono aumentati del 47% - dai piselli ai fagioli, dai ceci alle fave fino alle lenticchie - sulla spinta di una vera e propria svolta green nelle scelte di acquisto dei consumatori. E’ quanto emerge da una analisi Coldiretti su dati Istat in occasione della Giornata mondiale dei legumi, istituita dall’Organizzazione delle Nazione Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) come un’opportunità per aumentare la consapevolezza dei benefici dei legumi per la salute e per contribuire a sistemi alimentari sostenibili. La pandemia Covid ha accelerato la tendenza a mettere nel carrello della spesa cibi più salutari, riportando sulle tavole prodotti come i fagioli, che in passato erano chiamati non a caso “carne dei poveri”, perchè da sempre contribuiscono a garantire una corretta alimentazione anche a chi non può permettersi la carne. Sul fronte nutrizionale, infatti, i legumi sono un’ottima fonte di proteine e di fibre alimentari, utili, fra l'altro, per regolare le funzioni intestinali e per il controllo dei livelli di glucosio e colesterolo nel sangue. Contengono sali minerali, come ferro, calcio, potassio, fosforo e magnesio, vitamine del gruppo B e, quando sono freschi, anche vitamina C. “E dal punto di vista ambientale – ha sottolineato la Coldiretti – le piante di legumi hanno un importante ruolo nella difesa della fertilità dei suoli, grazie alla loro capacità di fissare l’azoto al terreno, consentendo così la riduzione dell’uso di concimi chimici e contribuendo alla difesa delle acque e dell’ambiente”. I legumi più diffusi in Italia sono i fagioli, i piselli, le lenticchie, i ceci e le fave, oltre alle cicerchie, i lupini e la soia. E il Belpaese può contare su molte produzioni tipiche di qualità riconosciute dall’Unione Europea come i fagioli di Rotonda, di Atina, di Sarconi, di Sorana, di Cuneo, vallata bellunese, oltre alle lenticchie di Castelluccio e a quelle di Altamura. Le coltivazioni nazionali di legumi sono diffuse su oltre 150mila ettari, ai quali se ne aggiungono 273mila seminati a soia; ma soffrono della pressione di importazioni di prodotti a basso costo e ridotta qualità, magari favorite dagli accordi commerciali. La produzione nazionale si è così drasticamente ridotta rispetto al passato, accentuando la dipendenza dall’estero, nonostante una ripresa degli ultimi anni. In piena pandemia da Covid, le importazioni di legumi in Italia hanno superato i 400 milioni di chili, in crescita del 2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con un balzo del 16% per i piselli. Il risultato è che tre piatti di fagioli, lenticchie e ceci su quattro che si consumano in Italia oggi, sono stranieri, provenienti soprattutto da Paesi come gli Stati Uniti e il Canada, dove vengono fatti seccare con l’utilizzo del glisofate in pre-raccolta, secondo modalità vietate in Italia. Infatti, oltre il 90% delle lenticchie consumate in Italia sono straniere, soprattutto americane e canadesi. E la dipendenza dalle importazioni è all’incirca della stessa percentuale anche per i fagioli, che arrivano in gran parte dall’Argentina e dal Nord America, mentre è del 70% per i piselli e di più del 50% per i ceci. Tra i grandi esportatori di legumi in Italia ci sono anche il Messico, diversi Paesi del Medio Oriente e la Turchia, attraverso la quale avvengono spesso triangolazioni. “Occorre assicurare che tutti i prodotti che entrano in Italia e nella Ue rispettino gli stessi criteri – sostiene la Coldiretti - garantendo che dietro gli alimenti, italiani e stranieri, in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute. Ma occorre anche rivedere il meccanismo degli accordi che favoriscono l’arrivo di prodotti stranieri sulle nostre tavole, garantendo che vengano applicati tre principi fondamentali: parità delle condizioni, efficacia dei controlli, reciprocità delle norme”. Con l’82% dei consumatori che, secondo l’indagine Coldiretti/Ixè, preferisce comprare prodotti italiani per sostenere l’occupazione e l’economia nazionale in un momento particolarmente difficile per il Paese è necessario – conclude Coldiretti – arrivare a una chiara indicazione di origine in etichetta che non è ancora obbligatoria per i legumi secchi o per quelli in scatola. Per non cadere nell’inganno del falso Made in Italy, perciò, è necessario privilegiare legumi che esplicitamente evidenziano l’origine nazionale in etichetta, come avviene per Dop e Igp.

domenica 27 febbraio 2022

Ecco la strategia per tenere allenato il cervello

di Gabriella Bruschi*
Allenare la mente: chi fa selezione del personale per le aziende lo sa bene. Contano certamente le competenze tecniche per ricoprire un certo ruolo, ma altrettanto importati sono le abilità cognitive. Capacità di concentrazione, attenzione, memoria, lucidità, resistenza sono le principali abilità necessarie per eseguire al meglio il proprio lavoro. Abilità che solo per il 20% sono da attribuire al proprio Dna, mentre per il rimanente 80% dipendono dalla capacità di ciascuno di saperle stimolare e irrobustire, a prescindere dall’età. “Sempre più aziende vanno alla ricerca di personale con specifiche caratteristiche cognitive per svolgere un dato lavoro” dice Giuseppe Alfredo Iannoccari neuropsicologo, docente di Scienze Umane all’Università Statale di Milano e presidente dell’associazione Assomensana. Ogni lavoro ha bisogno di abilità cognitive specifiche. Dal lavoratore addetto al controllo di un prodotto finito, al manager che deve focalizzarsi su più settori contemporaneamente. Lo stesso vale per un insegnante che deve sintetizzare e rendere semplici argomenti difficili, magari in smart working, per uno studente che deve preparare un esame, per chi deve esporre un progetto in un convegno. Le abilità cognitive si possono migliorare e con esse anche il rapporto con la vita? “Gli studi scientifici più recenti hanno evidenziato una grande novità: le attività cognitive si possono incrementare, migliorare, stimolare con le adeguate strategie ottenendo eccellenti risultati a qualsiasi età” dice Iannoccari. “E d’altro canto, migliorare le proprie abilità consente di avere maggiori soddisfazioni nel proprio lavoro, aumentare l’autostima, in generale rendere migliore il proprio rapporto con la vita”. Bisogna pensare al cervello come un muscolo: sappiamo bene che allenandoci in palestra il bicipite migliora. La stessa cosa avviene per il cervello: va allenato, stimolato, irrorato perché possa avere la migliore performance possibile nel presente e anche nel futuro”. Qual è l’approccio migliore per migliorare le abilità cognitive? “Innanzitutto per stimolare la nostra mente occorre non smettere mai di imparare, di cimentarci in nuove cose e attività” risponde Iannoccari. “I neuroni così stimolati, continueranno a produrre quelle sostanze chimiche che ne incrementano il volume e la tonicità consentendo loro di lavorare meglio, a qualsiasi età”. Se al contrario le abilità cognitive non vengono stimolate, alla lunga si sperimentano situazioni frustranti che possono portare depressione, isolamento, timore di non essere all’altezza. “Si crea in sostanza un circolo vizioso: meno mi impegno a fare, meno imparo e meno riesco a fare. Ma se faccio meno, il mio cervello meno si attiva e si arriverà alla cosiddetta “inflazione mentale”: è come pensare di lasciare il capitale sotto il materasso senza farlo fruttare, nel tempo verrà eroso dall’inflazione e diminuirà. Se invece lo si mette a frutto potrà aumentare”. Che cosa fa rallentare il cervello? “In tutte le professioni sono sempre gli schemi automatici a fare da freno. Se si ripete di continuo una medesima attività, non si attiva nulla nel cervello: dal pianista che replica sempre lo stesso spartito, al contabile che rivede gli stessi conti, all’operaio che esegue sempre la medesima mansione, fino a chi gioca sempre allo stesso gioco di carte o fa lo stesso allenamento sportivo. Cambiare le regole, modificare gli schemi: è la strategia per un cervello in ottima forma? “Modificare gli schemi, apprenderne di nuovi, provare le varianti, sperimentare nuovi giochi, cambiare le regole: sono tutte azioni che fanno uscire dalla “confort zone” del cervello e smuovono i neuroni”. L’attività cerebrale non è necessariamente legata al solo fattore anagrafico. Eravamo tutti convinti che la vita fosse una curva a campana, ascendente fino a un certo punto e poi discendente. Oggi, invece, la vita è considerata una crescita continua, ricca di successivi apprendimenti e opportunità. Ciò è testimoniato dal numero sempre crescente di persone lucidissime, molto colte e piene di progetti nuovi anche oltre i 90 anni. Dunque il tema è proprio qui. Che cosa hanno in comune le attività cognitive di un 30enne e quelle di uno di questi senior? “Il fattore più importante -che soprattutto è un atteggiamento e uno stato mentale- è la curiosità: essa è il motore per capire cose nuove, sperimentare nuove abilità che, una volta acquisite, aprono la strada ad altre nuove, e così via allargando sempre più gli interessi”. Chi invece ha un atteggiamento rinunciatario, a 30 come a 90 anni, nei confronti di ciò che gli è sconosciuto, nuovo o apparentemente difficile, è destinato a peggiorare rapidamente: la rinuncia nuoce gravemente alla salute. La curiosità consente invece di raccogliere gli stimoli e portarli alle altre abilità: alla memoria, considerata la regina di tutte le attività cognitive, all’attenzione, alla concentrazione. Ci sono ben 17 tipi di memoria diversi – spiega Iannoccari – quella per i nomi, quella per i volti e quella per i numeri, ma anche quella procedurale (l’abilità di sapere come fare le cose), la prospettica (ricordarsi di fare una cosa più tardi), semantica (ricordare che significato hanno i termini e a che cosa servono gli oggetti). Ci sono persone molto dotate su alcuni fronti, ma meno in altri. Un po’ come accade per gli sportivi: chi eccelle nella maratona non è detto che abbia le medesime performance nei 100 metri. Ognuna di queste può essere stimolata con trucchi, esercizi e strategie anche divertenti che Assomensana ha messo a punto nei corsi di Ginnastica Mentale che si svolgono in più di 30 province italiane. Alcuni sono molto semplici: si potrebbe per esempio iniziare con l’abbandonare o limitare le cosiddette “protesi mentali” costituite da agende e rubriche elettroniche e ricominciare a imparare a memoria alcuni numero di telefono e memorizzare appuntamenti e compleanni, suggerisce Iannoccari. Oppure si può evitare di frammentare troppo l’attenzione spostandosi continuamente dall’attività principale allo smart phone o ai social: si potrebbero creare dei “Tech-break” nel corso della giornata in cui concentrare queste attività. Altro meccanismo utile al cervello è la narrazione verbale: raccontarsi, raccontare episodi, ripetere trame di film o di romanzi sono tutte attività che tengono allenato il cervello. Infine il suggerimento di sperimentare qualsiasi tipo di attività nuove: uno sport, un viaggio, un corso, un hobby, uno strumento musicale, un gioco, persino provare a usare la mano non dominante nei piccoli gesti. “Sono tutte attività collaterali all’attività lavorativa principale, ma che diventano sinergiche con essa e la migliorano” conclude Iannoccari. E’ da poco uscito il suo nuovo libro sul tema: “I 10 pilastri per un cervello efficiente” edito da Franco Angeli. * Per gentile concessione di Firstonline, autorevole giornale web di economia e finanza diretto da Franco Locatelli e presieduto da Ernesto Auci

sabato 26 febbraio 2022

Premiato brevetto torinese contro la metastasi del cancro

È stato premiato all’Expo di Dubai come migliore brevetto italiano nella sezione Life Science and Healthcare nell’ambito dell’Intellectual Property Awards 2021. Si tratta di un complesso chimerico specifico per le cellule tumorali sviluppato da Lorena Quirico, Francesca Orso e Daniela Taverna del Dipartimento di Biotecnologie Molecolari e Scienze per la Salute, del Centro per le Biotecnologie Molecolari dell'Università di Torino. Il progetto è stato finalizzato a cercare terapie più efficaci per la cura del cancro oltre che maggiormente focalizzate sul tumore. Una delle principali cause di mortalità legata al cancro è la formazione di metastasi in organi distanti da quello dove il tumore ha avuto una sua prima origine. Questo perché, purtroppo, le attuali terapie non sono sufficienti a eradicare la malattia e sono spesso devastanti per l’organismo, che viene quindi debilitato dalla terapia stessa. Il team guidato da Daniela Taverna ha sviluppato un complesso macromolecolare che comprende molecole di natura diversa capaci di esercitare azioni differenti. Il complesso chimerico è composto da due porzioni: una sequenza chiamata aptamero, in grado di riconoscere selettivamente un antigene presente in grande quantità sulle cellule tumorali unita a un piccolo RNA non-codificante, il miR-148b, con funzione anti-metastatica. Tale complesso ha mostrato una elevata capacità di bloccare la metastatizzazione, che è ancora oggi la causa principe della mortalità per cancro. Il complesso chimerico è stato oggetto di brevettazione nazionale e internazionale ed è stato premiato a Dubai, in seguito al concorso organizzato dal ministero dello Sviluppo Economico (Mise) - Direzione Generale per la Tutela della Proprietà Industriale – Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, in collaborazione con Netval. Un importante riconoscimento che mostra ancora una volta come sia cruciale la ricerca svolta nelle Università pubbliche, enti pubblici di ricerca nazionali e a Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) per le ricadute che questa può avere in termini di avanzamento tecnologico in ambito sanitario.

Quegli antiossidanti che ci preservano dai radicali liberi

di Roberto Rey*
Gli antiossidanti svolgono un ruolo importante nell’ambito della prevenzione in quanto ostacolano la formazione dei pericolosi radicali liberi e cercano di neutralizzare quelli già costituiti. Una dieta variata e ricca di frutta e verdura consente di integrare e rafforzare le naturali difese antiossidanti e preservare così lo stato di salute dell’organismo. É importante mantenere in equilibrio la bilancia ossidativa su cui pesano da una parte i fattori di rischio (radicali liberi) e dall’altra i fattori di protezione (gli antiossidanti). Una dieta ricca di frutta e verdure o integrata con antiossidanti offre evidenti benefici su alcune forme di neoplasie (polmone esofago, stomaco, colon, retto, ovaio, mammella) e sulla prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari. I fattori protettivi antiossidanti sono: 1. Carotenoidi: alfa e beta carotene, licopene, luteina, che sono abbondanti in carote, peperoni, pomodori, melone, nonché in broccoli e in vegetali a foglia verde. 2. Flavonoidi: abbondanti in tè verde e nero, olio di oliva, vino rosso, arancia rossa e fragole. 3. Oligoelementi: il Selenio, abbondante in spinaci, broccoli, cavoli, cipolle e funghi; lo Zinco, abbondante in spinaci e cavoletti di Bruxelles. 4. Le vitamine C, E, A e quelle del gruppo B. La vitamina C è abbondante in agrumi, pomodori, broccoli, cavoli e fragole; la vitamina E abbonda in olio di oliva, asparagi, avocado e cereali integrali; la vitamina B in ortaggi verdi e cereali integrali.  Le fonti alimentari più utili e benefiche come Aantiossidanti sono: al primo posto mirtilli, cavolo verde, barbabietola, prugne nere, fragole; al secondo arancia, cavoletti di Bruxelles, pompelmo, kiwi; al terzo spinaci, pomodori, cetrioli, albicocche, cipolle, melone. Ecco, perciò, alcune semplici “regole” nutrizionalmente corrette: assunzione abbondante di frutta e verdura; assunzione ridotta di latticini contenenti elevate percentuali di grassi saturi; evitare cibi preconfezionati contenenti grassi saturi; attenzione alla cioccolata, assumerne solo piccole quantità di nero fondente al 70-90%; attenzione alle torte commerciali; friggere di rado e a fiamma bassa e mai riutilizzare l’olio; moderazione nel consumo del caffè (meglio se decaffeinato). Inoltre: ridurre drasticamente il burro e utilizzare olio di oliva extravergine; incrementare l’apporto dei prodotti della pesca, ricchi di omega 3 e di omega 6; privilegiare le carni bianche rispetto alle carni rosse (bene coniglio e tacchino); adottare dieta normolipidica con prevalenza di grassi mono e poli insaturi, lievemente iperproteica, meglio la soia e altre leguminose; incrementare cibi integrali e non raffinati. Non esagerare nel consumo di pane e derivati o di primi piatti (pasta, riso ecc,). L’Università di Boston ha fatto uno studio per quantificare il potere antiossidante dei vari cibi del mondo vegetale. A tal fin é stato attribuito loro un valore ORAC (capacità assorbente ossigeno), valore della capacità di azione antiossidante. Essenziale anche l’attività fisica regolare senza la quale le difese organiche contro i radicali liberi possono affievolirsi. Allo stesso modo é efficace, per l’anti invecchiamento, un’appropriata alimentazione che fornisca all’organismo almeno 5.000 U di antiossidanti al giorno. * Medico, presidente dell'associazione Più Vita in Salute

lunedì 21 febbraio 2022

Ecco le regole per evitare il mal di schiena

di Roberto Rey*
La colonna vertebrale è la struttura cardine su cui noi organizziamo ogni posizione che assumiamo nella vita quotidiana. Il dolore alla schiena, che a sorpresa ci blocca per qualche giorno, è spesso dovuto a: accumulo di tensioni o errori di postura o scarsa attenzione nei confronti delle posizioni scorrette che assumiamo durante le varie attività giornaliere. Per evitare la comparsa di eventi acuti è bene rispettare alcune indicazioni di corretta postura: a) non rimanere troppo a lungo nella stessa posizione, in quanto l’immobilità sulla sedia causa tensioni muscolari che nel lungo periodo possono portare a contratture dolorose da una parte e a debolezza dall’altra. La schiena durante la posizione seduta è sollecitata sia nella zona lombare che in quella cervicale e questo spiega perché è consigliabile fare, ogni due ore, regolari intervalli, finalizzati all’allungamento della colonna dorsale oppure fare una breve camminata. In ufficio è utile stare seduti su sedie che consentano di appoggiare le braccia e non obblighino a pesare solo sulla regione lombosacrale. b) Non accavallare le gambe. É un’abitudine che fa distribuire in modo non armonico il peso del corpo. c) Quando si è alla guida di un’auto non ci si deve insaccare sul sedile, ma fare in modo che i fianchi abbiano una posizione più alta di quella delle ginocchia in modo da non gravare troppo sulla zona lombare. É bene appoggiarsi allo schienale e al poggiatesta in modo che la schiena sia ben dritta durante la guida. Se il viaggio è lungo è bene fare una sosta ogni 2-3 ore, per camminare e rilassare la muscolatura delle gambe, delle braccia e delle spalle. Le tre principali cause del mal di schiena sono: 1. Il sovrappeso; 2. La scarsa attività fisica; 3. Le posture scorrette. A queste possono aggiungersene altre che, incidendo sugli equilibri posturali, finiscono per causare problemi di tipo muscolare, tendineo e articolare. Una causa importante sono anche le calzature non adeguate quindi: a) scartare i tacchi alti (sono tollerati quelli inferiori a 4 cm); b) utilizzare calzature comode, a pianta larga in modo che il peso corporeo sia distribuito su tutta la pianta del piede; c) l’uso di calzature non adeguate dovrebbe essere solo occasionale. Una ricerca che ha coinvolto più di 5.000 persone affette da mal di schiena per problemi collegati alla colonna vertebrale, ha dimostrato un legame tra i dolori collegati alla colonna, soprattutto a livello lombare e il fumo della sigaretta. Il motivo sembra legato a due ragioni: 1. Il fumo aumenta la produzione di tossine e di radicali liberi che fanno invecchiare precocemente i dischi intervertebrali; 2. Il fumo produce danni ai polmoni con conseguente minore ossigenazione del sangue. Altre condizioni meno importanti e meno frequenti che possono concorrere a creare problemi alla colonna sono: a) La miopia. In assenza di occhiali con lenti correttive lo sforzo di mettere a fuoco e accomodare, può portare lentamente a mettere in tensione alcuni muscoli a livello cervicale e dorsale. b) Oltre ai problemi di vista, come causa del mal di schiena dobbiamo aggiungere quelli della masticazione, dovuti al cattivo allineamento tra arcata superiore e inferiore. c) Anche stress e psiche hanno un ruolo importante; infatti, il dolore lombare è più frequente tra coloro che soffrono di depressione e di disturbi d’ansia e tra coloro che hanno problemi sul lavoro e vivono situazioni di disagio sociale ed economico. d) L’inclinazione del collo provocata dal telefono cellulare determina un carico aggiunto sopra la spalla e il deltoide. La spiegazione del collegamento tra le varie situazioni è quella per cui le tensioni muscolari finiscono per incidere sul distretto lombare provocando disturbi di ogni genere, probabilmente perché mente e corpo vengono penalizzati dalla frustrazione. Il tratto lombare è evidentemente quello su cui incidono maggiormente le tensioni muscolari. La mente è la centrale operativa mentre il corpo è l’esecutore che mette in atto ciò che gli viene comandato e non sempre il risultato finale è il migliore in termini di salute e benessere. * Medico, presidente dell'Associazione Più Vita in Salute

domenica 20 febbraio 2022

Il "nemico" Glaucoma, grande rischio per i parenti

di David Ciacci e Francesca Jonsson*
Il glaucoma e l’ipertensione endoculare non ben trattata rappresentano la seconda causa di cecità al mondo dopo la cataratta ma, a differenza di quest’ultima, la perdita visiva associata al glaucoma è irreversibile. In Italia sono circa 800.000 i pazienti accertati, equivalenti al 2.5% della popolazione, con una prevalenza maggiore al nord d’Italia. É una patologia oculare che può presentare diversi quadri clinici, nella maggior parte dei casi accomunati da un aumento della pressione intraoculare (> 20 mmHg). L’aumento della pressione all’interno del bulbo oculare è dovuta a una aumentata produzione o a un ridotto assorbimento del liquido che normalmente circola all’interno del segmento anteriore dell’occhio, l’umor acqueo. L’aumento pressorio, a carico del segmento anteriore dell’occhio (lo spazio compreso tra la cornea e l’iride) può esser presente fin dalla nascita come nel glaucoma congenito, può manifestarsi improvvisamente con un attacco acuto di glaucoma con grave dolore e annebbiamento visivo, oppure può insorgere in maniera subdola e lenta, come nella maggior parte dei casi in corso di glaucoma cronico ad angolo aperto o glaucomi secondari ad altre patologie (ad esempio eccessivo uso di cortisone). Il glaucoma primario ad angolo aperto rappresenta la tipologia più comune, rappresentando il 75% dei casi. È una patologia caratterizzata da una pressione intraoculare > 20 mmHg e da danni secondari ischemici al nervo ottico, con conseguente perdita del campo visivo. Il meccanismo per il quale un rialzo pressorio porti al danneggiamento delle cellule nervose della retina rimane ancora sconosciuto, ma è stato ipotizzato un danno di tipo meccanico, da compressione e un danno ischemico, legato alla compressione dei vasi sanguigni. Esiste una variante del glaucoma ad angolo aperto, ossia il “normal tension glaucoma”, conosciuto come glaucoma a bassa pressione, nel quale la pressione intraoculare è normale, ma la patologia progredisce con danni del campo visivo e perdita progressiva della vista, in pazienti asintomatici che non sanno di avere la patologia. Esistono diversi fattori di rischio che aumentano la probabilità di sviluppare il glaucoma, come l’età avanzata, il sesso maschile, la razza nera, la presenza di patologie vascolari sistemiche e la familiarità. I parenti di primo grado di un paziente con glaucoma hanno un rischio fino a nove volte superiore alla popolazione generale di sviluppare tale patologia; ciò nonostante, oltre il 50% delle persone nei Paesi sviluppati non è a conoscenza di esserne affetto. Da questi presupposti deriva l’importanza fondamentale di una diagnosi precoce, di uno stretto follow-up dei pazienti affetti dalla patologia e una scrupolosa attività di screening dei familiari stretti. * Centro oculistico Chiros (Torino)

Ideato dispositivo per prevenire le fratture ossee

Un gruppo di studenti ha ideato un dispositivo innovativo e un algoritmo per comprendere e prevenire le fratture ossee. Nel corso della vita, infatti, circa il 40% della popolazione italiana incorre in una rottura di femore, vertebra o polso. Le fratture dovute all’osteoporosi hanno conseguenze importanti in termini di mortalità e di disabilità motoria, con elevati costi sanitari e sociali. Il progetto GAP (image-Guided experimental and computational Analysis of fractured Patients) si inserisce in questo ambito e punta a superare i limiti della diagnostica attuale delle fratture ossee, per sviluppare metodi di diagnosi precoce più efficaci. L’idea è nata all’interno dell’Alta Scuola Politecnica (ASP), il programma internazionale riservato ai migliori studenti del Politecnico di Milano e del Politecnico di Torino. Il gruppo di lavoro si è focalizzato sullo studio delle fratture ossee alla microscala, dove sussistono ancora molti dubbi sull’origine e sulla propagazione delle fratture. Non è ancora chiaro quale sia il ruolo di piccole cavità presenti nell’architettura ossea, definite lacune. Per avere un punto di vista completo gli studenti dell’ASP hanno analizzato il fenomeno sia attraverso una campagna sperimentale, sia con dei modelli computazionali. In dettaglio, è stato progettato e realizzato un dispositivo di micro-compressione che permette sia di testare i campioni ossei femorali in condizioni che riproducono la situazione di lavoro in-vivo all’interno del corpo umano, sia di acquisire immagini di determinate sezioni ossee. Ciò è stato possibile grazie all’utilizzo della tecnologia innovativa, basata sulla generazione di luce di sincrotrone e di laser ad elettroni liberi di alta qualità, dell’Elettra Sincrotrone di Trieste. La luce del sincrotrone è una radiazione elettromagnetica caratterizzata da particelle cariche con una velocità elevatissima, vicina a quella della luce, e che, di conseguenza, ha una lunghezza d'onda molto limitata. Queste caratteristiche fanno sì che il picco di radiazione rientri nella categoria dei raggi X e che sia molto adatta per analizzare un tessuto come le ossa. Questo è il punto fondamentale della ricerca, perché nessuno prima aveva studiato il fenomeno con immagini di risoluzione così alta. La qualità e la quantità di immagini acquisite e analizzate sono, infatti, l’elemento di forza di questo studio. Altrettanto innovativa è stata la tecnica utilizzata per processare questa grande mole di dati. Gli studenti, dovendo esaminare oltre due milioni di immagini, hanno deciso di automatizzare il processo, sviluppando una rete neurale convoluzionale in grado di identificare autonomamente le lacune ossee. Le reti neurali sono algoritmi di deep learning oggi al centro dell’attenzione della comunità scientifica internazionale, per il loro potenziale nell’analizzare le immagini cliniche. La realizzazione di questo algoritmo ha permesso di risparmiare oltre due milioni di ore nella fase di post-processing. Parallelamente il fenomeno è stato esaminato attraverso simulazioni computazionali. È stato realizzato e validato un modello che permette di riprodurre prove di compressione ossea che potrà essere utilizzato per analisi future, senza la necessità di nuovi campioni delle ossa. Il progetto GAP, coordinato da Maria Chiara Sbarra, insieme a Irene Aiazzi, Bingji Liu, Alessandro Casto e Giovanni Ziarelli, ha ottenuto risultati importanti in soli due anni di lavoro. Il team multidisciplinare, guidato dalla professoressa Laura Vergani e dalla dottoranda Federica Buccino del Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Milano, ha collaborato con l’ETH di Zurigo, il centro di ricerca internazionale Elettra Sincrotrone di Trieste e il Gruppo San Donato.

venerdì 18 febbraio 2022

Come è cambiato il rapporto degli italiani con la salute

Per UniSalute, assicurazione sanitaria appartenente al gruppo Unipol, Nomisma ha sviluppato l’Osservatorio Sanità, con l’obiettivo di monitorare e comprendere le abitudini degli italiani in merito ai temi della salute e della prevenzione. Il report 2021 che ne è derivato ha messo al centro delle tematiche l’alimentazione degli italiani, con una lettura delle trasformazioni intervenute a seguito del periodo pandemico. Nello specifico, la ricerca Nomisma ha evidenziato che, nell’ultimo anno, il 51% degli italiani ha modificato le proprie abitudini alimentari e che, nel 40% dei casi, si è trattato di un cambiamento positivo e migliorativo rispetto agli stili alimentari pre-pandemia. Sempre più italiani, infatti, associano le scelte nutrizionali al mantenimento del proprio benessere e il 37% vede nel controllo dell’alimentazione un modo per restare in salute. Un approccio che si evince anche dal fatto che più di un italiano su quattro segue una dieta o un regime alimentare controllato e che la maggior parte di essi (il 54%) lo fa per il proprio benessere fisico, non solo per piacersi di più. Il 31%, però, ha detto di seguire (o di avere intenzione di farlo in futuro) diete “fai da te”, trovate su Internet o conosciute tramite passaparola, a fronte di una quota minore che si affida a dietologi, personal trainer o al medico di base. Le rilevazioni di Nomisma realizzate per UniSalute hanno evidenziato anche che, nonostante le abitudini virtuose a livello alimentare, un italiano su quattro ha messo su peso rispetto al periodo precedente al lockdown. Un approfondimento dell’Osservatorio Sanità UniSalute ha riguardato il rapporto degli italiani con il movimento nel post pandemia. Oggi, il 30% delle persone dichiara di non svolgere nessun tipo di attività fisica, quota in crescita rispetto al periodo pre-Covid, quando la percentuale di coloro che non facevano esercizio fisico era pari al 25% della popolazione. Fra l'altro, nel 2021, solo il 21% degli italiani ha praticato attività sportiva con continuità, mentre nel periodo precedente all’emergenza sanitaria lo faceva il 28%. Un dato poco confortante se si considera anche che il 52% delle persone cammina meno di 30 minuti al giorno. L’Osservatorio Sanità UniSalute ha dedicato un focus alla valutazione del benessere fisico e psicologico degli italiani. Dall’analisi Nomisma è emerso che il 29% delle persone è preoccupata per il proprio stato di salute psichica e che il 41% si sente spesso giù di morale. Non solo: il 69% degli italiani ha affermato di provare spesso un senso di spossatezza e mancanza di energie, mentre una persona su tre ha ammesso di avere di frequente problemi a prendere sonno. Tuttavia, la pandemia – aumentando l’attenzione posta sui temi della salute e del benessere – ha portato gli italiani a mostrare una maggiore propensione alla prevenzione. Infatti, un italiano su tre afferma di fare prevenzione e visite regolari con l’obiettivo di mantenere sotto controllo il proprio stato di salute. Un ulteriore 29% tende a fare controlli e visite non appena si presentano i primi disturbi o sintomi. E il 9%, pur stando bene, si impegna per migliorare il proprio stato di salute e sentirsi meglio.  Un altro argomento affrontato da Nomisma nell’ambito dell’Osservatorio Sanità UniSalute 2021 è stato quello della cronicità. In Italia quattro persone su 10, tra i 18 e i 75 anni, soffrono di almeno una patologia cronica. Tra le più diffuse l’ipertensione, che colpisce il 18% delle persone comprese in questa fascia d’età, le allergie, di cui soffre il 14% degli italiani; artrite e artrosi (13%), osteoporosi (6%). Il 5% di italiani, inoltre, ha diabete o asma e il 4% deve combattere contro un tumore.  Oggi, il 56% degli italiani che soffrono di queste patologie si sottopone agli esami con la stessa regolarità di quanto faceva prima del Covid, mentre il 30% ha addirittura aumentato la frequenza rispetto al 2019. Tuttavia, rimane un 15% dei malati che, nonostante l’allentarsi dell’emergenza sanitaria , non ha ancora ripreso a effettuare i controlli legati alla patologia con la stessa frequenza del periodo pre-pandemico.

mercoledì 16 febbraio 2022

Il geriatra Isaia spiega i problemi della vecchiaia

Pubblichiamo un ampio stralcio dell'intervista che Loredana Masseria ha fatto per L'approfondimento dell'Asl Torino a Gianluca Isaia, presidente della Associazione Geriatri Extraospedalieri (Age) Piemonte-Valle D’Aosta e dell'Accademia di Medicina di Torino.
Dottor Isaia, qual è la differenza tra vecchio e anziano? In realtà i nostri pazienti sono vecchi, anche se noi non usiamo questo termine nell’accezione corretta. Oggi dire ‘vecchio’ ha assunto una connotazione negativa ma, in realtà, in tutta la letteratura, l’anziano è un Vecchio che richiama nel significato l’elemento della saggezza, della memoria, identifica una persona nella quale trovare risposte. Anziano è una parola più recente, usata spesso con l’intenzione di recare offesa a nessuno. Probabilmente l’utilizzo del termine anziano è nato quando ancora non c’era la cultura del vecchio. Il ‘vecchio’ prima era il 65enne che oggi è ancora giovane, ma effettivamente 25 anni fa dire a un 65enne che era vecchio poteva turbare. Oggi, la cultura del ‘vecchio’ è stata compresa e molti anziani quotidianamente mi dicono: ‘Non mi chiami anziano, sono vecchio!. Parliamo di 85enni, 90enni, che preferiscono questo termine e questo dimostra un iniziale cambiamento culturale, che è alla base dell’accettazione della vecchiaia come qualità e non come peso. Secondo lei, quindi è giusto spostare l’asticella dai 65 ai 75 anni per definire il limite anagrafico dell’età geriatrica. In termini generali è assolutamente giusto, perché a 65 anni ormai si fanno le maratone, si gioca a calcetto, addirittura ci si sposa. Ma dobbiamo fare dei distinguo che riguardano non solo l’età ma il grado di funzionalità della persona. Noi usiamo spesso le scale valutative che ci danno un quadro sulla mortalità, sulla demenza, sulla capacità di uscire da una degenza in condizioni più o meno buone e, queste scale, questi test, considerano l’età solo in maniera marginale; in realtà dobbiamo valutare tanti altri aspetti, come la capacità di alzarsi da soli, di uscire da soli, di ricordare alcune cose. Talvolta ci sono 60enni che potrebbero essere considerati vecchi perché hanno un quadro di salute talmente compromesso da un punto di vista fisico e cognitivo che presentano le performance di un 90enne. E poi ci sono magari degli 80enni che sono ancora in perfetta forma. Quindi direi che è sicuramente corretta la decisione presa dalla comunità scientifica internazionale di spostare l’asticella oltre i 75 anni. Ma questo significherà lavorare di più! Non voglio entrare in un campo politico, occorre fare dei distinguo e capisco che lavorare fino a 67 anni può essere frustrante, però, è anche vero, e noi lo notiamo, che spesso quando si smette di lavorare si va incontro a delle patologie come la demenza o la depressione. Ognuno di noi ha un ruolo sociale individuale determinato sia dal lavoro, e questo dipende dal tipo di lavoro (se usurante o meno), sia dal grado partecipazione attiva in famiglia; quando di punto in bianco si perde quel ruolo, magari si riduce la capacità economica, si inizia a spendere anche di più perché c’è necessità di maggiore assistenza, alla fine la persona viene messa ai margini, tende a perdere quel ruolo sociale e questo è l’incipit di tutta una serie comorbilità che forse, se avesse lavorato un po’ di più, sarebbero arrivate dopo o in misura più leggera. In tal senso, sarebbe bene individuare percorsi volontari di uscita dal lavoro graduali. Quindi questo significa, tenuto conto anche dell’aspettativa di vita che si è innalzata, che prima i vecchi soffrivano di meno di depressione perché mantenevano nella famiglia e nella società un ruolo più attivo? Prima, diciamo fino a 50 anni fa, le famiglie erano patriarcali, o anche matriarcali, comunque, si viveva tutti insieme, quindi i vecchi non conoscevano l’emarginazione e anche quando erano più bisognosi di assistenza, comunque erano lì, in famiglia, avevano sempre un loro posto, una casa, erano circondati dai nipoti ai quali trasmettevano storie, conoscenze, sicurezza; adesso, con la società moderna non esistono più le famiglia numerose, i figli vanno spesso all’estero o comunque lontano da casa e i vecchi si ritrovano soli. Lontani dai figli, vanno ad abitare in case più piccole, perdono i loro punti di riferimento, le loro abitudini, spesso si sentono inutili...queste sono le condizioni che minano la loro salute sia psichica che fisica. La vecchiaia può essere considerata una malattia? La vecchiaia non è una malattia. C’è sempre stato questo dubbio circa la vecchiaia intesa come malattia, sin dall’antica Roma. E’ chiaro che se il vecchio non si muove più dal letto, non riesce a comunicare ed è quasi in uno stato semi vegetativo, può sembrare che non sia degno di una vita; ma dobbiamo accettare che nella vecchiaia vi sia un cambiamento, con delle limitazioni funzionali e con un diverso stato cognitivo ma senza che per questo il vecchio venga declassato. Io lo noto spesso con i pazienti quando arrivano in reparto,e posso dire che il paziente fragile, anche quello più compromesso, comunque ha delle risorse e si ha sempre da imparare. Tra tutte le patologie che possono colpire un anziano, perché parlare proprio della depressione? Perché la depressione è una patologia tra le più frequenti nell’anziano. E aggiungo, è anche una delle più sotto diagnosticate nell’anziano. Questo per tante ragioni, abbiamo voluto rimarcare l’attenzione su questa patologia perché spesso si dà per scontata, nella convinzione che se uno invecchia è normale che sia triste, quasi con una sorta di rassegnazione fatalista che porta a pensare che sia inutile ricorrere al medico. La medesima cosa avviene spesso anche per la demenza. In realtà dobbiamo pensarci e discuterne, a partire dalla prevenzione, pensare a una rete assistenziale che limiti e che prevenga le limitazioni funzionali che si sa, prima o poi arriveranno e che dovremo accettare in questa nuova condizione. E poi, la depressione quando si manifesta ha dei tratti distintivi. Ad esempio, l’anziano ha anche un altro problema: assume tante pastiglie ed è dimostrato che più è alto il numero di compresse che prende un paziente tanto peggiore è il tono dell’umore e tanto peggiore è l’aderenza al trattamento farmacologico. Quindi, se si prescrivono 10-15 compresse al giorno a un anziano, cosa che avviene abbastanza comunemente, è probabile che questa persona decida di assumerne un 20% in meno. Il problema è che decide lui quali terapie assumere e quali no. Tra queste 15 compresse ve ne saranno alcune che non sono essenziali per la sua sopravvivenza o per la sua vita, ma lui potrebbe decidere di non prendere proprio le altre, quelle che invece sono fondamentali per la sua salute. In aggiunta, c’è anche il problema che se una persona assume già tante pastiglie, magari viene scartata l’ipotesi dell’antidepressivo proprio per non appesantire ulteriormente il programma terapeutico. E’ necessario quindi prestare molta attenzione alle reali necessità individuali, valutando ogni persona nel suo insieme senza focalizzarci solamente sulle singole patologie. Sappiamo che la depressione è una piaga e chi ne viene colpito è estremamente danneggiato perché una diagnosi di disturbo depressivo maggiore riduce la sopravvivenza media, aumenta il rischio di mortalità, di ospedalizzazione per altre malattie e peggiora il recupero da altre patologie, infine, aumenta il rischio di istituzionalizzazione, cioè il depresso viene più spesso ricoverato in RSA. Fortunatamente molte RSA presentano alti standard qualitativi, tuttavia l’ambiente domestico andrebbe preservato e mantenuto il più possibile. Cosa si può fare sul Territorio? Le risposte possono essere diverse, ma occorre sempre pensare alla prevenzione e alla persona. Non si può generalizzare. Occorre distinguere tra la sindrome depressiva o la distimia, cioè quell’atteggiamento deflesso, che dura diversi anni ma è più lieve rispetto alla sindrome depressiva maggiore. Occorre ascoltare e capire il paziente, comprendere le sue esigenze, il livello culturale. A volte ci sono anziani che culturalmente hanno già difficoltà a esprimersi, o hanno difficoltà a relazionarsi con altre persone, magari con persone molto più giovani. Per esempio, capisco la buona volontà dei gruppi di animatori che nelle RSA creano momenti di aggregazione per far ballare gli ospiti, o le tombole a Natale. Sono interventi importanti, ma penso che se capitasse a me, che non ballo e non amo la tombola, sarei un paziente in forte sofferenza e probabilmente non sarei in grado di beneficiare delle ricadute positive di tali accortezze. Quindi gli interventi vanno studiati e programmati sulla persona. Può spiegare meglio la correlazione tra depressione nell’anziano e livello culturale? Esiste un’associazione tra sindrome depressiva e demenza vascolare. La demenza vascolare è un sottogruppo del deterioramento cognitivo che trae origine prevalentemente da fenomeni voluttuari: abitudine al fumo, scarsa attività fisica, oppure comorbidità, ipertensione, diabete, colesterolo, alcol... chi ha questo corredo sintomatologico è chiaro che probabilmente andrà incontro a un problema cognitivo di tipo vascolare e questo è un fattore maggiormente predisponente a una sindrome depressiva. Però le cause che ho elencato sono spesso legate a scarsa consapevolezza della prevenzione, e quindi, forse derivano anche da un retaggio culturale che andrebbe cambiato, almeno per le generazioni future. Se invece si parla di scolarità non c’è una correlazione netta, se c’è una ha bassa scolarità non è detto che vi siano più possibilità di diventare depressi, questo si addice più propriamente alla demenza anziché alla depressione. Ultima domanda. Quanto è peggiorata la situazione con il Covid? Tantissimo, tantissimo. Abbiamo scritto pagine e pagine su questo argomento perché prima di tutto l’anziano non ha tutti gli strumenti cognitivi per usare la tecnologia in modo fluido, non è ovviamente un nativo digitale, quindi, mentre i giovani potevano organizzare gli incontri sul web, o comunque chattare per tenersi in contatto con gli amici o semplicemente per tenersi aggiornati, gli anziani si sono trovati sprovvisti di questo strumento. In più, tutte le cose che erano soliti fare quotidianamente sono transitoriamente saltate e la routine per l’anziano è fondamentale, perché la routine dà sicurezza. Con il Covid improvvisamente è cambiato tutto: non potevano più uscire, o non volevano più uscire per paura, neanche per una passeggiata sotto casa. La paura bloccava anche i familiari che non andavano a trovarli e questo ha incrementato la depressione e ha creato un altro grosso problema: quello del non continuare le cure. Molte visite mediche di controllo non sono state effettuate, visite spesso importanti. Anche gli accessi al Pronto Soccorso sono diminuiti in corso di lockdown rigido. Ad esempio, per paura del Covid anche chi ha avuto sintomi lievi di infarto talvolta è rimasto a casa, con conseguenze facilmente immaginabili. Ma ancora oggi, anche se la situazione epidemiologica sembra essere in netto miglioramento, molti anziani convivono con l’ansia e il timore di potersi ammalare. Potremmo dire che per paura di morire di Covid, scelgono di non vivere come vivano un tempo.