mercoledì 16 febbraio 2022

Il geriatra Isaia spiega i problemi della vecchiaia

Pubblichiamo un ampio stralcio dell'intervista che Loredana Masseria ha fatto per L'approfondimento dell'Asl Torino a Gianluca Isaia, presidente della Associazione Geriatri Extraospedalieri (Age) Piemonte-Valle D’Aosta e dell'Accademia di Medicina di Torino.
Dottor Isaia, qual è la differenza tra vecchio e anziano? In realtà i nostri pazienti sono vecchi, anche se noi non usiamo questo termine nell’accezione corretta. Oggi dire ‘vecchio’ ha assunto una connotazione negativa ma, in realtà, in tutta la letteratura, l’anziano è un Vecchio che richiama nel significato l’elemento della saggezza, della memoria, identifica una persona nella quale trovare risposte. Anziano è una parola più recente, usata spesso con l’intenzione di recare offesa a nessuno. Probabilmente l’utilizzo del termine anziano è nato quando ancora non c’era la cultura del vecchio. Il ‘vecchio’ prima era il 65enne che oggi è ancora giovane, ma effettivamente 25 anni fa dire a un 65enne che era vecchio poteva turbare. Oggi, la cultura del ‘vecchio’ è stata compresa e molti anziani quotidianamente mi dicono: ‘Non mi chiami anziano, sono vecchio!. Parliamo di 85enni, 90enni, che preferiscono questo termine e questo dimostra un iniziale cambiamento culturale, che è alla base dell’accettazione della vecchiaia come qualità e non come peso. Secondo lei, quindi è giusto spostare l’asticella dai 65 ai 75 anni per definire il limite anagrafico dell’età geriatrica. In termini generali è assolutamente giusto, perché a 65 anni ormai si fanno le maratone, si gioca a calcetto, addirittura ci si sposa. Ma dobbiamo fare dei distinguo che riguardano non solo l’età ma il grado di funzionalità della persona. Noi usiamo spesso le scale valutative che ci danno un quadro sulla mortalità, sulla demenza, sulla capacità di uscire da una degenza in condizioni più o meno buone e, queste scale, questi test, considerano l’età solo in maniera marginale; in realtà dobbiamo valutare tanti altri aspetti, come la capacità di alzarsi da soli, di uscire da soli, di ricordare alcune cose. Talvolta ci sono 60enni che potrebbero essere considerati vecchi perché hanno un quadro di salute talmente compromesso da un punto di vista fisico e cognitivo che presentano le performance di un 90enne. E poi ci sono magari degli 80enni che sono ancora in perfetta forma. Quindi direi che è sicuramente corretta la decisione presa dalla comunità scientifica internazionale di spostare l’asticella oltre i 75 anni. Ma questo significherà lavorare di più! Non voglio entrare in un campo politico, occorre fare dei distinguo e capisco che lavorare fino a 67 anni può essere frustrante, però, è anche vero, e noi lo notiamo, che spesso quando si smette di lavorare si va incontro a delle patologie come la demenza o la depressione. Ognuno di noi ha un ruolo sociale individuale determinato sia dal lavoro, e questo dipende dal tipo di lavoro (se usurante o meno), sia dal grado partecipazione attiva in famiglia; quando di punto in bianco si perde quel ruolo, magari si riduce la capacità economica, si inizia a spendere anche di più perché c’è necessità di maggiore assistenza, alla fine la persona viene messa ai margini, tende a perdere quel ruolo sociale e questo è l’incipit di tutta una serie comorbilità che forse, se avesse lavorato un po’ di più, sarebbero arrivate dopo o in misura più leggera. In tal senso, sarebbe bene individuare percorsi volontari di uscita dal lavoro graduali. Quindi questo significa, tenuto conto anche dell’aspettativa di vita che si è innalzata, che prima i vecchi soffrivano di meno di depressione perché mantenevano nella famiglia e nella società un ruolo più attivo? Prima, diciamo fino a 50 anni fa, le famiglie erano patriarcali, o anche matriarcali, comunque, si viveva tutti insieme, quindi i vecchi non conoscevano l’emarginazione e anche quando erano più bisognosi di assistenza, comunque erano lì, in famiglia, avevano sempre un loro posto, una casa, erano circondati dai nipoti ai quali trasmettevano storie, conoscenze, sicurezza; adesso, con la società moderna non esistono più le famiglia numerose, i figli vanno spesso all’estero o comunque lontano da casa e i vecchi si ritrovano soli. Lontani dai figli, vanno ad abitare in case più piccole, perdono i loro punti di riferimento, le loro abitudini, spesso si sentono inutili...queste sono le condizioni che minano la loro salute sia psichica che fisica. La vecchiaia può essere considerata una malattia? La vecchiaia non è una malattia. C’è sempre stato questo dubbio circa la vecchiaia intesa come malattia, sin dall’antica Roma. E’ chiaro che se il vecchio non si muove più dal letto, non riesce a comunicare ed è quasi in uno stato semi vegetativo, può sembrare che non sia degno di una vita; ma dobbiamo accettare che nella vecchiaia vi sia un cambiamento, con delle limitazioni funzionali e con un diverso stato cognitivo ma senza che per questo il vecchio venga declassato. Io lo noto spesso con i pazienti quando arrivano in reparto,e posso dire che il paziente fragile, anche quello più compromesso, comunque ha delle risorse e si ha sempre da imparare. Tra tutte le patologie che possono colpire un anziano, perché parlare proprio della depressione? Perché la depressione è una patologia tra le più frequenti nell’anziano. E aggiungo, è anche una delle più sotto diagnosticate nell’anziano. Questo per tante ragioni, abbiamo voluto rimarcare l’attenzione su questa patologia perché spesso si dà per scontata, nella convinzione che se uno invecchia è normale che sia triste, quasi con una sorta di rassegnazione fatalista che porta a pensare che sia inutile ricorrere al medico. La medesima cosa avviene spesso anche per la demenza. In realtà dobbiamo pensarci e discuterne, a partire dalla prevenzione, pensare a una rete assistenziale che limiti e che prevenga le limitazioni funzionali che si sa, prima o poi arriveranno e che dovremo accettare in questa nuova condizione. E poi, la depressione quando si manifesta ha dei tratti distintivi. Ad esempio, l’anziano ha anche un altro problema: assume tante pastiglie ed è dimostrato che più è alto il numero di compresse che prende un paziente tanto peggiore è il tono dell’umore e tanto peggiore è l’aderenza al trattamento farmacologico. Quindi, se si prescrivono 10-15 compresse al giorno a un anziano, cosa che avviene abbastanza comunemente, è probabile che questa persona decida di assumerne un 20% in meno. Il problema è che decide lui quali terapie assumere e quali no. Tra queste 15 compresse ve ne saranno alcune che non sono essenziali per la sua sopravvivenza o per la sua vita, ma lui potrebbe decidere di non prendere proprio le altre, quelle che invece sono fondamentali per la sua salute. In aggiunta, c’è anche il problema che se una persona assume già tante pastiglie, magari viene scartata l’ipotesi dell’antidepressivo proprio per non appesantire ulteriormente il programma terapeutico. E’ necessario quindi prestare molta attenzione alle reali necessità individuali, valutando ogni persona nel suo insieme senza focalizzarci solamente sulle singole patologie. Sappiamo che la depressione è una piaga e chi ne viene colpito è estremamente danneggiato perché una diagnosi di disturbo depressivo maggiore riduce la sopravvivenza media, aumenta il rischio di mortalità, di ospedalizzazione per altre malattie e peggiora il recupero da altre patologie, infine, aumenta il rischio di istituzionalizzazione, cioè il depresso viene più spesso ricoverato in RSA. Fortunatamente molte RSA presentano alti standard qualitativi, tuttavia l’ambiente domestico andrebbe preservato e mantenuto il più possibile. Cosa si può fare sul Territorio? Le risposte possono essere diverse, ma occorre sempre pensare alla prevenzione e alla persona. Non si può generalizzare. Occorre distinguere tra la sindrome depressiva o la distimia, cioè quell’atteggiamento deflesso, che dura diversi anni ma è più lieve rispetto alla sindrome depressiva maggiore. Occorre ascoltare e capire il paziente, comprendere le sue esigenze, il livello culturale. A volte ci sono anziani che culturalmente hanno già difficoltà a esprimersi, o hanno difficoltà a relazionarsi con altre persone, magari con persone molto più giovani. Per esempio, capisco la buona volontà dei gruppi di animatori che nelle RSA creano momenti di aggregazione per far ballare gli ospiti, o le tombole a Natale. Sono interventi importanti, ma penso che se capitasse a me, che non ballo e non amo la tombola, sarei un paziente in forte sofferenza e probabilmente non sarei in grado di beneficiare delle ricadute positive di tali accortezze. Quindi gli interventi vanno studiati e programmati sulla persona. Può spiegare meglio la correlazione tra depressione nell’anziano e livello culturale? Esiste un’associazione tra sindrome depressiva e demenza vascolare. La demenza vascolare è un sottogruppo del deterioramento cognitivo che trae origine prevalentemente da fenomeni voluttuari: abitudine al fumo, scarsa attività fisica, oppure comorbidità, ipertensione, diabete, colesterolo, alcol... chi ha questo corredo sintomatologico è chiaro che probabilmente andrà incontro a un problema cognitivo di tipo vascolare e questo è un fattore maggiormente predisponente a una sindrome depressiva. Però le cause che ho elencato sono spesso legate a scarsa consapevolezza della prevenzione, e quindi, forse derivano anche da un retaggio culturale che andrebbe cambiato, almeno per le generazioni future. Se invece si parla di scolarità non c’è una correlazione netta, se c’è una ha bassa scolarità non è detto che vi siano più possibilità di diventare depressi, questo si addice più propriamente alla demenza anziché alla depressione. Ultima domanda. Quanto è peggiorata la situazione con il Covid? Tantissimo, tantissimo. Abbiamo scritto pagine e pagine su questo argomento perché prima di tutto l’anziano non ha tutti gli strumenti cognitivi per usare la tecnologia in modo fluido, non è ovviamente un nativo digitale, quindi, mentre i giovani potevano organizzare gli incontri sul web, o comunque chattare per tenersi in contatto con gli amici o semplicemente per tenersi aggiornati, gli anziani si sono trovati sprovvisti di questo strumento. In più, tutte le cose che erano soliti fare quotidianamente sono transitoriamente saltate e la routine per l’anziano è fondamentale, perché la routine dà sicurezza. Con il Covid improvvisamente è cambiato tutto: non potevano più uscire, o non volevano più uscire per paura, neanche per una passeggiata sotto casa. La paura bloccava anche i familiari che non andavano a trovarli e questo ha incrementato la depressione e ha creato un altro grosso problema: quello del non continuare le cure. Molte visite mediche di controllo non sono state effettuate, visite spesso importanti. Anche gli accessi al Pronto Soccorso sono diminuiti in corso di lockdown rigido. Ad esempio, per paura del Covid anche chi ha avuto sintomi lievi di infarto talvolta è rimasto a casa, con conseguenze facilmente immaginabili. Ma ancora oggi, anche se la situazione epidemiologica sembra essere in netto miglioramento, molti anziani convivono con l’ansia e il timore di potersi ammalare. Potremmo dire che per paura di morire di Covid, scelgono di non vivere come vivano un tempo.

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